SHANGHAI: Settimane di crisi finanziaria, giorni ancora delicati per l'assetto degli investimenti internazionali caratterizzati però anche da una serie di condizionamenti a catena che tendono a favorire una sorta di "allarmismo dilagante", sotteso a generalizzare sui rischi attribuibili agli assetti di ogni grande società quotata.
Spesso però ci si dimentica di focalizzare elementi costruttivi e segnali di solidità provenienti soprattutto da quei protagonisti che hanno saputo fare della globalizzazione un elemento di strategia, di diversificazione d'investimento e conseguentemente di multi - position nel gioco di partecipazioni e cessioni sui mercati internazionali
Ancora una volta, segni di solidità sembrano emergere da un bacino d'affari da sempre etichettato come rischioso, e mi riferisco ovviamente a quello cinese. Questa volta per chi ha giocato su un dialogo di investimenti diversificati in Asia è riuscito probabilmente a beneficiare di un effetto "cuscinetto" sul crollo degli scorsi giorni.
L'esempio più eclatante e rappresentativo è fornito dal gruppo IBM che in giorni di brivido per gli assetti di quotazione è arrivata a sorprendere un po' tutti gli operatori del settore. I profitti hanno segnato un picco ulteriore facendo brillantemente fronte alla frenata nei ricavi dell'ultimo trimestre.
Il crollo borsistisco internazionale ha influenzato naturalmente anche la società di Sam Palmisano, ma è indubbio come il coinvolgimento del gruppo sul mercato asiatico e in particolar modo cinese abbia in qualche modo favorito un'atmosfera di attenuamento del crollo.
Esempi di questo coinvolgimento? Possiamo partire con il 2004, quando IBM decise di vendere la divisione pc alla cinese Lenovo per una cifra di 1,25 miliardi di dollari, mettendo in mano ai cinesi le sorti del 12% del suo fatturato. Tutti gridarono alla scandalo, ma Lenovo ha saputo assicurare all'americana un bacino di sicurezza conquistando già un anno dopo oltre il 30% del mercato cinese e ben il 15% di un mercato importantissimo per il settore quale quello giapponese.
Una presenza quella in Asia da parte del big blue rafforzato anche da valori consistenti d'assunzioni: oltre 73.000 in India e 13.000 in Cina nello scorso anno.
Ma al di là delle grandi vendite o acquisizioni (basti citare il caso Kingdee cinese, in cui IBM ha concluso l'acquisizione dell'8% di una delle prime software house cinesi) è interessante osservare il coinvolgimento dell'azienda americana nel sistema di cooperazione tecnica e di investimento congiunto alla ricerca, favorito dal governo cinese.
Di questa settimana è infatti la notizia che annuncia l'apertura di un nuovo centro di ricerca IBM a Shanghai presso l'High Tech Park di Zhangjian nella nuova area infrastrutturale di Pudong. Trattasi dell'ultimo degli oltre 200 centri di ricerca che IBM ha iniziato a sviluppare in Cina con ritmi vertiginosi dal 1995.
E se l'atmosfera borsistica internazionale richiama alla cautela, John Kelly, vice presidente e direttore della ricerca in IBM, ha riaffermato in un'intervista di lunedì scorso a China Tech News, il fermo interesse della società a proseguire su una linea di continuo investimento sul mercato cinese, nella sicurezza di poter beneficiare del clima di immediata e rinnovata prosperitò che il "mondo tecnico ed informatico" cinese continua ad evidenziare.
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